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Racconti


Il Gatto Nero



Nella mia vita professionale ho conosciuto  un fracco di gente sia nell’Arma che al di fuori dell’Arma. Tanti mi sono scivolati addosso senza lasciare traccia, altrettanti li ricordo con affetto, ma alcuni mi sono rimasti nel cuore e il loro ricordo, quando non mi fa sorridere, mi fa male. Il  “Gatto Nero” è uno di questi.

 

(La foto ritrae Giuseppe Morabito detto il Tiradritto, arrestato da noi Carabinieri a Santa Venere del Comune di Reggio Calabria il 18 Febbraio 2004. Inserito nell'elenco dei 30 latitanti più pericolosi, era considerato il boss dei boss della 'ndrangheta. La foto è stata scattata dal Luogotenente Salvatore Leva, alias il "Gatto Nero")


Il nome non gliel’ho dato io, ma il comandante del Nucleo Operativo del Comando Provinciale di Reggio Calabria. Io a Reggio ci ero arrivato perché qualcuno al Comando Generale s’era accorto che ero rimasto troppo a lungo dove facevo servizio (abituato ad essere trasferito ogni due anni e mezzo, la permanenza di tre anni e mezzo in un posto effettivamente sembrava anche a me eccessivamente lunga), o almeno questa era la scusa. Probabilmente il vero motivo era che bisognava trovare un fesso da mandare al Reparto Operativo di  Reggio Calabria, e nel campo delle fesserie io ai piani alti passavo per un esperto.

Il “Gatto Nero” comandava la 4^ sezione del Nucleo Operativo, la sezione investigazioni scientifiche. Il suo nome era Salvatore Leva, luogotenente di lunga esperienza, calabrese in tutto: dalla faccia, ai modi di fare, alla parlata. Con quegli occhietti furbi e l’eterno sorrisetto, non capivi mai se parlava sul serio o ti stava prendendo per il culo. In realtà è bastato poco tempo per capirci. Il nome era legato al semplice fatto che dal mio arrivo a Reggio Calabria  i morti ammazzati si erano moltiplicati: lui dava la colpa a me e io la davo a lui, da qui il nome “Gatto Nero”. Lui, invece, mi sfotteva chiamandomi Mangiafuoco.  Il bello era che con lui anche i sopralluoghi nei posti più impensati e per gli omicidi più efferati avevano un alone come di leggerezza, come di qualcosa di immanente che non si può fermare o modificare. Insomma, era fatalista, ma con quello spirito ironico che trasformava ogni fatalità in cibo per la vita. Come quel giorno in Aspromonte. Quel giorno in un terreno a mezza collina avevano ammazzato padre e figlio, 37 anni il primo, 13 il secondo. Ma non è dell’omicidio che devo raccontare, bensì di un contorno. Come al solito, in presenza di morti occorreva informare il magistrato, e in quei casi il magistrato si doveva portare sul posto. Il caso ha voluto che in quel periodo presso la Procura competente per territorio vi fossero anche gli uditori giudiziari (in pratica magistrati che dopo l’esame di stato dovevano fare un periodo di affiancamento in Procura prima di diventare sostituti procuratori) e che il Pubblico Ministero di turno se li fosse portati al seguito tutti e sei. Tra me ed il Gatto Nero è bastata un’occhiata. Vista la  quantità  di gente, dopo aver assunto l'atteggiamento più serio possibile, il Gatto dalla collina mi urla di far fare attenzione e di  non inquinare il luogo. Alché io, con altrettanta professionalità e serietà dico ai magistrati di seguirmi e di mettere i piedi esattamente dove li mettevo io! Non vi dico la scena, roba da asilo. Voglio assicurare che non era cattiveria, e nemmeno uno sfottò nei confronti dei magistrati. C’era veramente l’esigenza di preservare i luoghi dell’omicidio, ma la sceneggiata era stata fatta a futura memoria, affinché una volta “esperti” quei magistrati si ricordassero del loro primo sopralluogo per un omicidio, e soprattutto si ricordassero chi in quel loro primo sopralluogo era la chioccia e chi i pulcini.  Così combinati facciamo il giro ed illustro loro quello che c’era da sapere. Alla fine tutti ci raduniamo in un luogo isolato e con il PM di turno concordiamo cosa fare. Ed è in questo momento che avviene una scena che non scorderò mai! Il PM si guarda attorno e dice che per preservare i luoghi occorreva sequestrare tutta la collina. Io lo guardo attonito, poi guardo il Gatto Nero e questi con il suo sorrisetto sulle labbra e gli occhi neri luccicanti dice candidamente a quel PM: “ E poi che fazzu, ci la ‘mpacchettu e cilla mportu in ufficiu?”[1] Mi son dovuto allontanare con una scusa per non farmela sotto dal ridere. Naturalmente la collina è rimasta lì.

Adesso il Gatto Nero non c’è più e, conoscendolo, dove si trova sarà incazzato come una iena. Mi immagino che litiga con il Padreterno perché da quando è lì non c’è stato nemmeno un morto ammazzato a cui fare quattro foto.

 

[1] Che faccio? Gliela impacchetto e gliela porto in ufficio?

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